“La scomparsa del senso di responsabilità è la conseguenza
di vasta portata della sottomissione all’autorità.”
— Stanley Milgram
 

C’è una civiltà che vive un profondo disagio e vuole farsi del male. A livello inconscio sa tutto dei suoi limiti, tutto sulla sparizione della sua forza, della sua vitalità: per questo la vediamo subire inerme il fascino primordiale della sua antitesi, del martirio che trova pulsazione nelle sevizie, del colpo di frusta o dei lividi in corpo, che ora sono le sole cose che la fanno sentire in vita.

Freud era convinto che la civilizzazione non fosse affatto il frutto di un’evoluzione “naturale”, interiore. In essa egli vedeva un argine, un’invenzione del potere per tenere a bada le pericolose forze animali nascoste negli esseri umani. Nella sua tesi era implicito che l’ideale di libertà e uguaglianza — ovvero il fondamento che sta alla base della democrazia — fosse impossibile da realizzare: vedeva nell’uomo una bestia da domare, nella civilizzazione la sua gabbia, nell’infelicità la sua condanna.

In superficie, dopo più di un secolo, si comprende ancora poco o nulla di questo fatto. Sullo sfondo gli ingranaggi della tecnica si muovono e danno ai molti l’illusione di muoversi anch’essi col mondo. E vi è, indubbiamente, un considerevole rifiuto nel voler cogliere questa paralisi, questa condanna all’inutilità nella sua pienezza. L’inconscio collettivo ne esce sconfitto: consapevole che un forte senso di impotenza non può che generare crepuscoli interiori con i quali nessuno vuole più commisurarsi: noi abbiamo imparato a conviverci, a eludere l’ostacolo, a silenziare le voci. E ora è solo nella pulsione di morte che questa civiltà prova a orientarsi per trovare il senso della vita. Basta guardare, guardare a fondo nella voragine: nulla, più della performance del dolore invade il nostro quotidiano. Nulla, più della tortura, è ora lo specchio dei nostri più sinceri desideri.

Ogni rito di comunione tra i corpi è venuto via. Il palmo della mano è stato sabotato. I cuori manomessi. L’amore, bandito. Domina il virtuale, il distanziamento, le restrizioni, la puntura, il codice, il tormento, i senza volto: tutto il masochismo come momento di piacere infecondo.

L’esperimento sull’obbedienza di Milgram ci insegna qualcosa. Dimostra che la scomparsa del senso di responsabilità genera mostri, macchine prive di coscienza che finiscono col definire un’azione distruttiva, non solo come ragionevole, ma anche e soprattutto come oggettivamente necessaria. Giusta.

C’è stato un tempo in cui vedere la tortura poggiarsi sul corpo dell’uomo e lui godere nell’umiliazione provocava, negli occhi dell’altro, un forte senso di vergogna. Un tempo in cui tutto questo era percepito come disagio seguito da ombre indefinite sul sentiero della deviazione. I nostri occhi si riempivano di sdegno, indignazione: ma ora questa civiltà è tutta incline alla tortura. Il ribrezzo, il senso del pudore, del limite e dell’umiliazione, non sono che sentimenti messi al bando. Esistono solo in frammenti. In schegge di senso relegate ai margini di piccole periferie dell’animo umano. E c’è questo da capire: non siamo più all’interno della logica del Salò di Pasolini, ma nel suo totale capovolgimento. In questo Girone del sangue è il desiderio dello schiavo a dettare i tempi e le modalità. Non sono i gerarchi a tenere prigionieri e torturare gli individui. Sono gli individui, al contrario, a desiderare e a infliggere a sé stessi la tortura. A chiedere che la fine non sopraggiunga mai.

Nel sadomasochismo, come è noto, è lo schiavo a mettere la parola fine al gioco, e quando il segnale non perviene, la morte, è il solo limite verso il quale si va incontro. Il compito del padrone si limita a provocare piacere allo schiavo attraverso la tortura: non deve emettere sentenze, non deve fermarsi. Può farlo, ma a una sola condizione: deve essere lo schiavo a pronunciarsi per primo.

Perciò, a questo punto, noi non dobbiamo più temere le sadiche peculiarità del padrone. Ciò che di più dobbiamo temere è questo masochismo dilagante e senza limite che nutre l’anima dello schiavo: è lui che tenta in tutti i modi di renderci partecipi alla performance, è lui che vuole assorbirci in questo gioco infecondo e mortale senza soluzione di continuità. In tal senso anche il correzionismopuò essere considerato come una nuova forma di tortura, di vivisezione sul corpo e sullo spirito, a cui gli umani si sottopongono per superare questo disagio. Tutto avviene nell’illusione di recuperare la potenza perduta. Nella speranza, forse, di poter superare quella che Anders chiamava “vergogna prometeica”.

 

 

 

Giancarlo Cutrona,
18 dicembre 2021