Il 18 ottobre per Alejandro è un giorno come tutti gli altri. Da dietro il bancone del suo ristorante intrattiene i clienti, versa il vino nei bicchieri, regala sorrisi. La giornata sembra buona, la sala è piena, la calma è regolare. Ma poi succede qualcosa di inaspettato. Le posate smettono di graffiare la porcellana, le bocche di parlare e tutti gli occhi si posano fissi verso il televisore attaccato alla parete: sullo schermo il caos. Santiago va a fuoco.
“Siamo rimasti tutti a bocca aperta, quelle immagini trasmesse dal telegiornale sembravano tratte da un film americano”.
E cos’hai pensato in quel momento?
“Non ricordo. A dire il vero non ho fatto in tempo a digerire la notizia che già le urla della folla imbestialita si udivano dal fondo della strada”.
Ma è successo tutto all’improvviso o c’erano già stati dei segnali?
“In un certo senso sì, ma non pensavamo di trovarci di fronte all’atto compiueto. Il carovita qui è materia di dibattito quotidiano, perché la gente è stanca di pagare un prezzo sempre più alto per i servizi e di continuare a guadagnare una miseria. Così quando il governo ha deciso di aumentare il tariffario generale dei trasporti, gli studenti che seguivano con attenzione la vicenda hanno invitato tutti i cittadini a boicottare i controlli e a non pagare i mezzi pubblici. Il resto è già notizia”.

Quindi la protesta è nata nei circoli universitari?
“Niente affatto. A prendere l’iniziativa sono stati i liceali, dei quindicenni insomma. Forse ad alcuni sembrerà strano, ma è così. Ma a questo giro il Cile può ritenersi più fortunato del solito, perché questa nuova generazione di studenti è molto intelligente, combattiva e preparata. Questi giovani liceali sono capaci di fare quello che non siamo riusciti a fare noi in passato, sanno usare la tecnologia e hanno dimostrato di saper coinvolgere il popolo”.
Da lì in poi per te cos’è cambiato? Hai deciso di unirti alla protesta o hai preferito evitare?
“Vivo a pochi passi da Piazza Italia e spesso, senza volerlo, mi sono trovato coinvolto all’interno di piccole rivolte. Ma rimanevo scettico, non sapevo cosa fare. Poi però, quando il governo ha annunciato lo stato di emergenza e i militari sono scesi armati nelle strade di Santiago, ho capito di non avere altra scelta che quella di unirmi consapevolmente alla protesta. Ad essere sinceri non sono mai stato un fervente sostenitore della violenza nelle manifestazioni, ma adesso che il popolo è coeso, adesso che molti cileni non hanno più paura e sono pronti a rischiare, non posso tirarmi indietro. Questo è un buon momento per far sentire la propria voce e il proprio dissenso contro questo sistema di privatizzazioni e contro questa farsa chiamata democrazia. Ora più che mai dobbiamo essere chiari e decisi, perché in Cile non esiste nessuna forma di democrazia reale. Questa, a limite, è solo un palliativo, una parola vuota che serve a legittimare i padroni del fondo di sempre”.
Come hai vissuto il giorno in cui è stato dichiarato lo stato di emergenza?
“Sarò franco: è stato incredibile. Il suono dei caceroleos si espandeva per tutta la città e l’aria puzzava di gas lacrimogeno, di plastica bruciata, e le sirene suonavano spiegate ininterrottamente quartiere per quartiere. Era chiaro a tutti che qualcosa si era rotto, che la rabbia covata per anni nella pancia della gente era finalmente esplosa: io avevo paura, ma allo stesso tempo ero felice, perché so che quando il popolo si unisce è capace di fare grandi cose. In verità tutti avevano paura. Ma non è mancato l’orgoglio, la tenacia, il coraggio. Il giorno dopo, al mattino, non sapevo dove posare gli occhi, le strade erano piene di dimostranti e tutti insieme formavamo una massa tumultuosa munita di pentole, cori e cartelli che avanzava compatta e senza paura. Stranamente la polizia ha lasciato fare e in molti si sono chiesti se non fosse solo un trucco per far generare il caos e giustificare poi, in un secondo momento, le solite misure repressive del governo. E così è stato. Di notte invece, quando è iniziato il coprifuoco, la maggior parte di noi è tornata a casa. Tuttavia molti non hanno obbedito e hanno continuato a protestare per le strade. A me, in un certo senso, non è stato concesso. Volevo uscire, volevo unirmi alla fiumana in rivolta. Ero curioso. Ma non l’ho fatto. Perché i miei coinquilini avevano molta paura e non mi hanno lasciato uscire e alla fine li ho dovuti assecondare per calmarli”.
Hai subito atti di violenza in prima persona?
“Fortunatamente no. Non ancora. Ma bisogna capire cosa si intende per violenza: io, ogni giorno, come tutti, torno a casa con gli occhi gonfi e la gola secca, avvelenato dai gas lacrimogeni. Ma non ho voglia di lamentarmi, non voglio fare la vittima, perché in un certo senso fa parte del gioco e molti hanno rischiato e rischiano più di me. Però questa, per me, è a tutti gli effetti una violenza. Perché il gas usato dai militari e dalla polizia è illegale e non colpisce solo chi prende parte alle manifestazioni, ma anche anziani e bambini che si trovano a centinaia di metri di distanza dai luoghi caldi”.
E ti è capitato di vedere altri subirla?
“Sì, certo. Ho visto i militari sparare vari colpi di moschettoni ai manifestanti a distanza ravvicinata, scontri corpo a corpo, pugni, calci e teste spaccate con il calcio del fucile. Ma niente morti fortunatamente”.

Qual è il sentimento dentro la manifestazione?
“In generale il senso è quello dell’unità, della compagnia. E anche se a prima vista lo scenario può apparire caotico, infuocato, pericoloso, in realtà è un luogo sicuro. La situazione però cambia quando arrivano i militari o la polizia, loro riescono sempre a mescolare tutto. Creano il panico di proposito per dividerci e quando ci riescono, alla fine, in qualche modo ci scappa sempre il morto”.
Non starai prendendo la faccenda troppo alla leggera?
Forse. Ma stiamo cercando di affrontare il nemico con un sorriso.
Sorriso? Però le immagini mostrano ben altro.
“Sì è vero, è così: c’è molta violenza, non lo nego. Ma quando a ribellarsi sono un milione di persone, tutto diventa più difficile. Se i militari usano la forza è normale che prima o poi ci sarà una nicchia che risponderà alla violenza con altrettanta violenza. Sono circostanze in cui è impossibile gestire tutto alla perfezione. Ci saranno sempre teste calde e infiltrati della polizia tra i manifestanti, ma il nostro obiettivo rimane quello di manifestare pacificamente. Le nostre armi sono e rimangono pentole, padelle e la voce. Niente di più. Ma come ho detto alcune volte capita, mentre si è in marcia, di essere travolti all’interno di sassaiole o scontri violenti con la polizia. Ma se non vuoi trovarti lì in mezzo puoi sempre scappare o arretrare di qualche metro”.
Di recente c’è stato un cambio di gabinetto per il ministro degli interni Andrés Chadwick (il cugino del presidente Pinera), come lo vedi?
“In realtà sono andati via otto ministri. I più noti. E non c’è bisogno di dirlo, è stata una mossa conveniente per il governo (ci hanno guadagnato). Alla fine si è trattato solo di un semplice arrocco di ministri, niente di speciale. La maggior parte di quelli che erano dentro sono rimasti dentro, ed è cambiato poco, davvero molto poco. Per conto suo il presidente ha annunciato molti cambiamenti, ma si tratta tutt’al più di mera propaganda: ha detto che alzerà gli stipendi, che abbasserà alcuni costi, ma non ha minimamente messo in discussione la costituzione (che è ancora quella scritta da Pinochet), né ha mosso critiche verso il sistema neoliberale che è, per noi, il vero problema, l’origine di tutti i mali del paese”.
Sai dirmi qual è, secondo te, il senso di questa protesta? Esiste un obiettivo comune?
“Certo che sì: chiediamo le dimissioni di Pinera, un cambio di passo radicale per il Paese. Ma attenzione, i problemi del Cile non sono iniziati con questo governo, si tratta di una storia lunga mezzo secolo. Pinera ha le colpe che ha, ma alla fine lui è e rimane solo una comparsa, una maschera passeggera messa al posto di comando. Per cambiare il Cile va cambiato l’intero sistema, non questo o quell’altro presidente”.
Quale futuro vedi per il Cile?
“Il futuro è incerto. Dipenderà da come i cittadini si comporteranno e da come l’opposizione presenterà le sue proposte e se queste proposte, alla fine, saranno valide o meno. Dipende anche da come la destra liberale giocherà le sue carte, perché ha un potere sconfinato che va dall’economia alla gestione delle informazioni, e non sarà facile contrastarla. Quello che è certo è che a partire da questa rivoluzione ci sarà un prima e un dopo nella storia del Cile. La maggior parte di noi spera che l’attenzione verrà rivolta al benessere delle persone e non solo alla crescita dell’economia e delle grandi imprese. Alcuni dei problemi che affliggono il Cile sono ormai noti, ma la stampa mondiale non va oltre la superficie e invece occorre parlare dei problemi seri, come l’acqua ad esempio. Nel deserto del Cile si sta consumando una tragedia inaudita e nessuno ne parla. Ma è lì che bisogna cercare, perché quella è la fonte di tutte le ingiustizie del nostro paese”.
Articolo apparso su L’Intellettuale Dissidente
il 15 novembre 2019
Giancarlo Cutrona